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La storia

S. Dalì, Dante in Paradiso
Il Canto si apre con il proemio alla III Cantica, che si distende per ben 36 versi e risulta così di ampiezza tripla rispetto al proemio del Purgatorio (I, 1-12) e addirittura quadrupla rispetto a quello dell’Inferno (II, 1-9): la maggiore ampiezza e solennità si spiega con l’accresciuta importanza della materia trattata, dal momento che il poeta si accinge a descrivere il regno santo come mai nessuno prima di lui aveva fatto e dovrà misurarsi con la difficoltà di riferire cose difficili anche solo da ricordare, anticipando il tema della visione inesprimibile che tanta parte avrà nel Paradiso. Ciò spiega anche perché Dante debba invocare l’assistenza di Apollo oltre che delle Muse, chiedendo al dio pagano (che naturalmente è personificazione dell’ispirazione divina) di aiutarlo nell’ardua impresa e consentirgli di cingere l’agognato alloro poetico: Apollo dovrà ispirarlo con lo stesso canto con cui vinse il satiro Marsia che lo aveva sfidato, in maniera analoga a Calliope che aveva sconfitto le Pieridi (Purg., I, 9-12) e sottolineando il fatto che la poesia di Dante dovrà essere ispirata da Dio e non un folle tentativo di gareggiare con la divinità nella rappresentazione di ciò che supera i limiti umani (ciò sarà ribadito anche nell’esordio del Canto seguente, vv. 7-9). Dante ribadisce anche il fatto che pochi, ormai, desiderano l’alloro, per cui la sua ambizione dovrebbe rallegrare Apollo ed essere di stimolo ad altri poeti dopo di lui perché seguano il suo esempio, nel che c’è forse una fin troppo modesta excusatio propter infirmitatem, dal momento che più volte nella Cantica egli esprimerà l’orgoglio di essere il primo a percorrere questa strada poetica.
Dopo l’ampia e complessa descrizione astronomica che indica la stagione primaverile e l’ora del mezzogiorno (è questa l’interpretazione più ovvia, mentre è improbabile che il poeta intenda l’alba), Dante vede Beatrice fissare il sole e imita il suo gesto, sperimentando l’accresciuto acume dei suoi sensi nell’Eden. I due hanno iniziato a salire verso la sfera del fuoco che divide il mondo terreno dal Cielo della Luna, anche se Dante non se n’è ancora reso conto e ha notato solo l’aumento straordinario della luce: il poeta si sente trasumanar, diventare qualcosa di più che un essere umano e non può descrivere questa sensazione se non con l’esempio ovidiano del pastore Glauco, che si tramutò in una creatura acquatica e si gettò in mare dicendo addio alla Terra (come vedremo, Dante ricorrerà spesso nella Cantica a similitudini mitologiche per rappresentare situazioni prive di termini di paragone «terreni»). L’aumento progressivo della luce e il dolce suono con cui ruotano le sfere celesti accendono in Dante il desiderio di capirne la ragione e Beatrice è sollecita a spiegargli che i due stanno salendo verso il Cielo, come un fulmine che cade dall’alto contro la sua natura; ciò naturalmente suscita un nuovo dubbio nel poeta che si chiede come sia possibile per lui, dotato di un corpo in carne e ossa, salire contro la legge di gravità, dubbio che sarà sciolto da Beatrice con una complessa spiegazione che occupa l’ultima parte del Canto. La donna assume fin dall’inizio l’atteggiamento che avrà sempre nella Cantica, ovvero di maestra che sospira e sorride delle ingenue domande del discepolo e fornisce spiegazioni di carattere dottrinale: anche qui, infatti, la sua spiegazione non chiarisce il dubbio di Dante di natura fisica (come fa un corpo grave a trascendere i corpi lievi, l’aria e il fuoco) ma inquadra il problema nell’ambito dell’ordinamento generale dell’Universo, collegandosi ai versi iniziali che descrivevano il riflettersi della luce divina di Cielo in Cielo. Beatrice spiega infatti che tutte le creature, razionali e non, fanno parte di un tutto armonico che è stato creato da Dio e ordinato in modo preciso, così che ogni cosa tende al suo fine attraverso strade diverse, come navi che giungono in porto solcando il gran mar de l’essere. Ciò vale per le cose inanimate, come il fuoco che tende a salire verso l’alto per sua natura e la terra che è attratta verso il centro dell’Universo, ma anche per gli esseri intelligenti, la cui anima razionale tende naturalmente a muoversi verso Dio; ovviamente essi sono dotati di libero arbitrio, per cui può avvenire che anziché volgersi in quella direzione siano attratti dai beni terreni, ma questo non è il caso di Dante che ha ormai purificato la sua anima nel viaggio attraverso Inferno e Purgatorio. Egli tende dunque verso Dio che risiede nell’Empireo e ciò è un atto del tutto naturale, come quello di un fiume che scorre dall’alto verso il basso, mentre sarebbe innaturale per Dante restare a terra, come un fuoco la cui fiamma non tendesse verso l’alto. Tale spiegazione di natura metafisica anticipa quella che sarà la cifra stilistica di gran parte della III Cantica, in cui spesso i dubbi scientifici di Dante verranno risolti con argomenti dottrinali e verrà ribadito che la sola filosofia umana è di per sé insufficiente a capire i misteri dell’Universo, proprio come lo stesso Virgilio aveva detto più volte rimandando alle chiose di Beatrice-teologia: ciò sarà evidente anche nella spiegazione circa le macchie lunari al centro del Canto seguente, in quanto laddove la ragione umana non può arrivare deve intervenire la fede e dunque Dante deve credere che sta salendo con tutto il corpo in Paradiso, non essendo in grado di comprenderlo.
È interessante inoltre che Beatrice usi per tre volte l’immagine del fuoco per spiegare il movimento di Dante, prima paragonandolo a un fulmine che corre verso la Terra (mentre lui corre verso il Cielo), poi spiegando che il fuoco tende a salire verso il Cielo della Luna (cioè verso la sfera del fuoco, dove è diretto Dante) e infine paragonando il fulmine che cade in basso contro la sua natura a un uomo che, altrettanto forzatamente, è attratto verso i beni terreni. La luce come elemento visivo domina largamente l’episodio, segnando il passaggio di Dante dalla dimensione terrena a quella celeste, anche attraverso l’immagine del sole che è evocato nella spiegazione astronomica, poi indicato come oggetto dello sguardo di Beatrice, infine chiamato in causa con l’immagine di un secondo sole che sembra illuminare col suo splendore il cielo: il viaggio di Dante verso la luce è ovviamente il suo percorso verso Dio e tale immagine si ricollega a quella dei versi iniziali in cui la gloria divina si riverberava in tutto l’Universo, e dove si diceva che Dante è giunto nel Cielo che più de la sua luce prende, ovvero quell’Empireo verso il quale ha iniziato a salire in modo prodigioso.

Note e passi controversi

Il Parnaso citato al v. 16 è il monte della Grecia centrale che, secondo il mito, era sede di Apollo e aveva una doppia cima; nel Medioevo si diffuse l’errata convinzione (attestata da Isidoro di Siviglia, Etym., XIV, 8) che le due cime fossero il Citerone e l’Elicona, abitate rispettivamente da Apollo e dalle Muse, mentre in realtà l’Elicona è un monte diverso. È possibile che qui Dante cada nella stessa confusione e indichi l’un giogo come il Citerone e l’altro con l’Elicona.
Il satiro Marsia (vv. 20-21) è protagonista di un racconto di Ovidio (Met., VI, 382 ss.), in cui sfida Apollo in una gara musicale e, vinto, viene scorticato vivo dal dio.
Apollo è detto delfica deità (v. 32) perché molto venerato anticamente a Delfi, mentre l’alloro è definito fronda / peneia in riferimento al mito di Dafne, la figlia di Peneo trasformatasi in alloro per sfuggire ad Apollo (Met., I, 452 ss.).
Cirra (v. 36) era una città sul golfo di Corinto collegata con Delfi e indicata per designare Apollo stesso.
La complessa spiegazione astronomica dei vv. 37-42 è stata variamente interpretata dai commentatori, anche se probabilmente indica che è l’equinozio di primavera e il sole è in congiunzione con l’Ariete. I quattro cerchi sono forse l’Equatore, l’Eclittica, il Coluro equinoziale e l’orizzonte di Gerusalemme e Purgatorio, che si intersecano formando tre croci (benché non perpendicolari). I vv. 43-45 indicano con ogni probabilità che è mezzogiorno, come detto in Purg., XXXIII, 104, e non l’alba come alcuni hanno ipotizzato (nell’emisfero sud è giorno pieno, mentre in quello opposto è notte).
Il pelegrin del v. 51 può essere il pellegrino che torna in patria, ma anche il falco pellegrino.
L’aumento della luce ai vv. 61-63 indica che Dante si avvicina alla sfera del fuoco, che divide il I Cielo dall’atmosfera.
La similitudine ai vv. 67-69 è tratta da Met., XIII, 898 ss. e si riferisce al pescatore della Beozia Glauco che, avendo notato che i pesci pescati mangiavano un’erba che li faceva balzare di nuovo in acqua, fece lo stesso e si trasformò in una creatura acquatica, gettandosi in mare.
Il sito da cui fugge la folgore (v. 92) è sicuramente la sfera del fuoco, verso cui invece Dante si avvicina.
Il ciel del v. 122 è l’Empireo, nel quale ruota velocissimo il Primo Mobile.